Comunità di Mattarello (1705 - 1807)

Tipologia: Ente

Tipologia ente: Preunitario

Condizione: pubblico

Sede: Mattarello

Le primissime testimonianze documentarie in cui si fa cenno del toponimo “Mattarello” risalgono ai primi decenni del secolo XIII. Nel 1210, infatti, il vescovo di Trento recupera alcuni beni siti nel territorio di Mattarello da Witoldo e Milone, membri di una famiglia legata alla vassallità vescovile allora detentrice di diritti anche su metà del castello di Gardolo.
Negli anni seguenti è sempre la presenza signorile a caratterizzare i rapporti economici in questo territorio. Tra il 1265 e il 1295 la famiglia di Trentinello Borserio, riccamente dotata nella zona di Termeno, otteneva ripetutamente dal Capitolo della Cattedrale ampi possedimenti nella zona di Novaline, sita nella zona collinare orientale dell'attuale paese di Mattarello, a sancire le prime attività di colonizzazione dell'area posta a sud della città di Trento. Ai primi anni del secolo XIV vi contribuisce anche la famiglia lagarina dei Castelbarco che, detentrice del vicino castello di Beseno, aveva spinto i propri interessi patrimoniali verso nord, a lambire i territori meridionali della città. Nelle investiture vescovili ai Castelbarco si indica sempre, pur in modo genericamente approssimativo, un territorio che andava dalla chiesa di S. Leonardo, allora sita nei pressi della località Acquaviva, al covalo dei frati Alemanni, sito nelle vicinanze dell'odierna località di Man.
È la costante presenza signorile in sostanza a condurre quel processo di colonizzazione dell'area posta a sud della città, ma tra XII e XIII secolo è tutto il circondario della città ad essere interessato dai processi di bonifica, dissodamento e colonizzazione secondo schemi che vedono coinvolte anche le comunità poste sulle alture circostanti della città, soprattutto nel tratto collinare orientale. Se osserviamo il fenomeno a partire da nord, possiamo constatare che le comunità di Meano, Villamontagna e di Povo, tutte poste a media altura, hanno condotto i processi di colonizzazione verso il basso rispettivamente nei territori di Gardolo, Cognola, Villazzano e Man. In modo analogo, la comunità di Vigolo Vattaro ha progressivamente occupato con pascoli e coltivi le aree boschive più a valle verso Valsorda, Novaline e Mattarello, dando origine ai primi nuclei demici, villae e mansi sparsi.
Nei primi decenni del secolo XIV l'intero processo di colonizzazione delle aree circostanti la città è ben comprensibile da un attento censimento dei beni comuni della città, condotto da una commissione di boni viri. L'area a sud della città, quella che interessa il territorio di Mattarello, posto alla sinistra orografica del fiume Adige, è decisamente orientata verso il tratto collinare e pedemontano. Partendo da sud, il testo delle “designationes communium civitatis Tridenti” del 1339, una sorta di censimento dei beni comuni della città, descrive le aree da poco coltivate verso l'attuale abitato di Acquaviva, dove esisteva anche la chiesa di S. Leonardo con i suoi beni terrieri; di qui la descrizione prosegue verso la montagna, l'attuale Vigolana – “mons de Seno” nel testo – per arrivare fin sopra l'abitato di Valsorda in Valle Ciresara, che costituiva il limite ultimo verso i beni di Vigolo Vattaro. Riscendendo verso valle i membri della commissione descrivono il tratto di territorio compreso tra l'attuale abitato di Novaline e il Casteller costellato da una discreta quantità di allodi per lo più posseduti da uomini della comunità di Vigolo Vattaro. A valle dominava, invece, ancora l'incolto, tanto che un'area molto vasta posta a sud dell'attuale abitato di Man era ancora occupata da un grande zona paludiva generata dal corso del fiume Adige ancora privo di arginazioni, nominata come lago di Lidorno nel testo e occupata da ischie e canneti.
Il testo delle designationes, in riferimento al territorio di Mattarello, descrive, dunque, la parte meridionale dei beni comuni appartenenti alla città, il cui diritto di uso era garantito a tutti i cittadini, veri e propri artefici del processo di colonizzazione e di costituzione delle prime isole demiche che sarebbero state all'origine dei più tardi villaggi che la documentazione mostra con più evidenza a partire dal secolo XV. Naturalmente, all'interno dello stesso territorio che fa evidente riferimento alla plebs Tridenti, altre forze signorili, vescovo, capitolo del duomo e famiglie nobiliari, nel curare i propri interessi patrimoniali contribuivano anch'esse al processo di antropizzazione e di ruralizzazione delle terre incolte.
Verso i primi anni del secolo XV, in seguito a complessi mutamenti politici ed istituzionali, l'intera geografia urbana si assesta in modo pressoché definitivo e una sentenza pubblicata nel 1427 mostra per la prima volta l'intera immagine della costituzione territoriale della città. Con essa si chiarisce anche la posizione giuridica di Mattarello, che veniva indicata tra le«ville che fanno con la città», ovvero di Sardagna, Piedicastello, Pisavacca, Ravina, Gardolo e Cognola. Il riferimento esplicita al meglio l'intera fascia territoriale circostante la città murata nella quale si trovavano i beni comuni, gli “indivisi”, già descritti nel censimento del 1339 e soggetti pertanto alla fiscalità cittadina. All'esterno di questa fascia territoriale, i beni soggetti ad altre 18 comunità esteriori, dotate di propria statutaria, ovvero di proprie carte di regola, con la sentenza masoviana del 1427 erano anch'esse state inglobate nelle attribuzioni fiscali della città, pur mantenendo una propria autonomia nella gestione dei propri beni comuni. A partire dai primi anni del secolo XVI alcune liti tra la città di Trento e la comunità di Vigolo Vattaro, che rivendicava come propri i beni siti nella zona pedemontana tra Mattarello Novaline e Valsorda, mostravano ancora tutti i segni di una comune origine degli uomini insediati nelle tre citate frazioni con la comunità di Vigolo Vattaro. E la presenza di molti uomini di Vigolo Vattaro tra i possidenti descritti negli estimi della villa di Mattarello già dalla metà del secolo XVI e ancora nel secolo seguente, ne costituisce ulteriore prova. Alla fine dello secolo XVIII la comunità di Vigolo Vattaro, che vantava ancora un nucleo consistente di possedimenti a Mattarello nelle “Regole di Vigolo”, entrava in conflitto con il comune di Trento in merito ai diritti di riscossione fiscale rivendicata come di propria pertinenza. Si trattava di un territorio sostanzialmente compatto posto a nord dell’attuale abitato, entro il quale i possidenti avevano ancora il diritto di ottenere il legname da fabbrica dalla comunità di Vigolo Vattaro per la copertura dei propri masi, proprio perché pagavano ad essa la colta. E per meglio dimostrare i propri diritti la comunità produsse in giudizio un estratto dal libro di estimo della comunità di Vigolo del 1538, nel quale sono riportate 58 partite d’estimo relative ai possessori che avevano i propri vigneti in questo lembo di terra.
Tuttavia era la città di Trento a vantare la gran quantità di beni comuni sul tenere di Mattarello, tanto che i consoli nel 1607 stabilirono che coloro che “presumono o pretendono esser del Comun di Mattarello et conseguentemente usar li comuni di essa” dovevano presentarsi davanti a i consoli e chi non si fosse presentato doveva intendersi per forestiere, salvo i cittadini i quali avevano diritto agli usi comuni. Ed è proprio sui diritti di uso dei beni comuni, che la città rilasciava con contratto enfiteutico a cadenza diciannovenale agli uomini stanziati negli aggregati demici di Mattarello, Novaline e Valsorda, che si venne lentamente a costituire una comunità di persone unite da interessi condivisi. Il diritto a godere i beni comuni, boschi nell'area pedemontana e montana e pascoli nei siti di valle presso il corso del fiume Adige, costituiva risorsa vitale per la sopravvivenza della comunità stessa. Nel 1705 il sindico della comunità di Mattarello, che evidentemente appariva già dotata di figure regolamentari, chiese ai consoli della città di Trento la concessione dei boschi comunali a titolo di carta di regola e non più a locazione diciannovennale. Nel maggio del medesimo anno il sindico Gentilotti, non a caso uno dei cittadini che vantava la maggior marte dei possedimenti in Mattarello, presentava un abbozzo di 15 capitoli di regola per l'esame consolare, che il 19 settembre gli stessi consoli approvarono con la clausola che la loro validità doveva ritenersi provvisoria.
Nel corso della prima metà del secolo XVIII le insistenti dispute tra gli uomini di Mattarello e la città per i modi d'uso dei beni comuni montani configurano un iter, pur faticoso, che condusse lentamente la comunità di Mattarello ad un loro godimento più stabile e con esso a darsi una regolamentazione interna per la loro gestione. Nel 1718 i consoli della città di Trento concessero in locazione alla comunità di Mattarello la parte dei terreni boschivi detti ‘la Montagna’, situati nella prossimità dei beni comuni con Vigolo Vattaro, dell’estensione approssimativa di due miglia. Essi comprendevano la montagna di Besenello, nota come “Scanuccia”, la parte della montagna a sud ovest di Vigolo, a sud la montagna posseduta dai signori del castello di Mattarello, e a nord est il tratto pedemontano che si approssimava verso i beni goduti dalla comunità di Vigolo nei pressi della roggia detta “Stolzan”. Lo ius regolandi rimaneva di pertinenza dei consoli, mentre la comunità si impegnava a conservare la montagna a coltura boschiva e quindi a non avviare opere di bonifica e di nuove colture come “novali” e “ronchi”; si impegnava altresì a non sublivellare la montagna, ma di gestirla a titolo di utile dominio al fine di garantirne l’uso a tutti i membri della città. Fu inoltre concessa la possibilità “ingazare” solo la terza parte dei boschi comuni, mentre altri 2/3 furono concessi ad uso comune anche degli affittalini abitanti nella villa al fine di tagliare legne da fuoco e di esercitarvi attività pastorizia. Alla limitrofa comunità di Vigolo Vattaro fu riservata la parte di montagna posta oltre la valle Ciresara, ubicata poco sopra l’abitato di Valsorda e fu esclusa dal presente livello la parte di montagna detta “Zampetta”. Nel 1718, tuttavia, anche quest’ultima fu concessa in locazione alla comunità di Mattarello. Queste concessioni, che col tempo si rivelarono economicamente gravose per la comunità di Mattarello per via dell’entità dei canoni di locazione, diedero luogo a una serie di contese con i consoli e si risolsero solo nel 1739 con un accordo che confermò sia le investiture livellarie della “Montagna” e del monte “Zampetta”, sia la trasposizione del contratto livellario nella forma di carta di regola, imposta alla comunità dai consoli della città. In cambio dell’accordo la comunità si impegnava a garantire alla città la prestazione di alcune opere e ad assumersi i lavori di mantenimento delle strade vicinali. Rimaneva in condivisione tra la comunità di Mattarello e la comunità di Vigolo Vattaro la parte dei boschi posti sopra l’abitato di Valsorda tra la “val Arsa” e la “val Ciresara”.
La carta di regola, che nacque in questo contesto giudiziario, fu concessa e approvata dai consoli il 16 gennaio 1740. Essa disciplinava la nomina e le funzioni del sindico, dei quattro giurati per i columelli di Mattarello di Sotto, Mattarello di sopra, Novaline e Valsorda, dei due saltari della campagna, di quello del bosco e del sindico della chiesa locale.
Questa normativa statutaria disciplinava soprattutto la condizione giuridica dei vicini, ovvero di coloro che avevano diritto a godere dei beni comuni. Vi appartenevano innanzitutto “le persone cittadine, le quali attualmente possedono o acquistarono in avenire de’ stabili in Mattarello, Novaline o Valsorda, devino essere immediatamente considerate per vicine senz’altra admissione della regola o confirmatione ... a condizione però che quelle debbino avere nel suddetto distretto una casa attualmente abitata e capace di famiglia sufficiente all’agricoltura propria, come anche de’ beni fruttiferi propri alla somma de ragnesi mille”. Vi facevano parte anche i masadori dei cittadini e i camerlenghi, ovvero gli abitanti nativi non possessori di beni. Il diritto di vicinato non poteva essere venduto e ceduto, né per contratto o per ultime volontà, ma doveva rimanere riservato ai “figli maschi di legitimo matrimonio procreati, escluse le femine”.
L’appartenenza al vicinato dava diritto a partecipare alle riunioni di regola, dalle quali erano esclusi i forestieri, mentre i cittadini potevano farsi rappresentare dai loro contadini insediati sui loro masi.
Tutte le cariche d’ufficio erano nominate in seno alla regola generale, che veniva convocata, previa comunicazione dei saltari, nella domenica dopo S. Giorgio, il santo patrono della comunità di Vigolo Vattaro, e alla quale erano chiamati a partecipare tutti i vicini, pena il pagamento di una ammenda nel caso di loro assenza ingiustificata. Per garantire la corrente conoscenza del vicinato si doveva formare “un registro appostato, da essere annualmente revisto, di tutte quelle famiglie tanto cittadine che convicine, che sono veramente ascritte e capaci del ben comune come vicine del medemo”.
I forestieri che non possedevano beni del valore di almeno 100 fiorini non godevano del diritto di vicinato, ma potevano comunque abitare nel territorio della comunità pagando una tassa annuale di tre troni, come tutti gli altri camerlenghi, rettificata nel 1758 a fiorini 2, con l’aggiunta di una tassa di fiorini 10 “una tantum” da pagare al momento della prima richiesta. Da questo onere erano esclusi i “masadori”, ovvero i contadini accasati, al servizio dei cittadini. Inoltre, tutti coloro che non possedevano beni stabili e non abitavano nel territorio della comunità non potevano godere dell’uso dei beni collettivi. Le limitazioni ai forestieri, visti come presenza che usurava la disponibilità delle risorse prime, indusse nel corso del secolo XVIII il corpo di regola a irrigidire le norme comunitarie, introducendo limitazioni economiche e vincoli penalizzanti per qualsiasi attività lavorativa.
La nomina del Sindico avveniva secondo un sistema che si avvicinava molto a quello della cooptazione. Il Sindico uscente, convocata la regola generale proponeva una terna di nomi dai quali i vicini avrebbero poi scelto il nuovo sindico. Gli uomini destinati a ricoprire questa carica dovevano essere “capaci d’officio”, ovvero saper scrivere e far di conto e quindi i nominativi ricadevano usualmente tra quelli dei cittadini. La durata della carica, che era gratuita, fatto salvo il godimento di alcune privative, durava un intero anno e poteva essere rinnovata per il successivo, senza però obbligo di dover per forza accettare la conferma; per un ulteriore reincarico si doveva attendere almeno lo spazio di un quinquiennio.
Anche i quattro giurati erano scelti nel novero di una terna proposta dal sindico uscente. La durata della carica durava un anno, mentre si doveva attendere almeno un triennio per conferire loro nuovamente il medesimo incarico. Al momento del rinnovo delle cariche, tuttavia, uno di essi doveva protrarre l’impegno anche nell’anno successivo, al fine di garantire la presenza di persona già informata sull’andamento degli affari comunali. In seno alla regola era nominato anche il sindico della chiesa, uno per Mattarello e uno per Valsorda, le cui cariche potevano durare al massimo un biennio e rinnovabili solo dopo un quinquiennio. Essi non potevano sostenere alcuna spesa senza il consenso del pievano. Spettava, inoltre, al pievano, al sindico della comunità, al sindico della chiesa e ai quattro giurati la nomina del “monego”, ovvero del sacrista della chiesa.
Sindico e giurati dovevano amministrare le uscite e gestire le entrate, ma non potevano effettuare spese superiori ai 10 fiorini senza il consenso della regola e nemmeno avviare contenziosi giudiziari senza l’approvazione dei vicini. All’inizio dell’anno amministrativo il corpo uscente doveva presentare le contabilità sostenute durante il suo mandato e allo stesso modo si procedeva per l’approvazione delle contabilità delle due chiese di Mattarello e Valsorda. Il nuovo corpo eletto, terminata la revisione delle contabilità, aveva anche il compito di far visita ai terreni, strade e altri beni comunitari, verificando che non fossero stati apportati danni o sottrazioni. Nel corso dell’anno era sua responsabilità vigilare sulla manutenzione di strade, acquedotti, canali e fontane al fine di garantirne l’efficienza e il buon stato. A questo fine potevano avvalersi dell’opera dell’ispettore della fontana e dei due saltari della campagna. Il sindico e i giurati dovevano, inoltre, vigilare sulla sicurezza degli abitati, soprattutto in merito alla prevenzione degli incendi, assicurando visite periodiche alle case, rivolte a verificare lo stato di pulizia dei camini e le distanze di sicurezza delle legne da fonti di calore.
Spettava all’intero corpo di regola “ingazare”, ovvero mettere sotto protezione, la terza parte della Montagna ottenuta in locazione dal comune di Trento, compresa anche la parte del “Zampetta”, entro i cui limiti era proibito tagliare legne e erbe e pascolare. Nel territorio del gazzo si dovevano riservare ad uso dei cittadini di Trento e dei vicini della comunità le piante da opera, abeti, larici e pini, che il sindico poteva loro assegnare secondo i bisogni delle loro case e fontane, mentra altra parte era riservata ad uso collettivo. I restanti due terzi della montagna assegnata in livello, invece, doveva essere lasciata in godimento comune dei cittadini e loro masadori, dei vicini, dei forestieri e affittalini abitanti nel territorio comunitario, che potevano tagliare legne a loro uso, escludendo gli scopi commerciali. Questo parte del territorio doveva rimanere sempre a coltura boschiva con spazi a pascolo, il tutto a uso collettivo, con la proibizione di locare singoli lotti a cittadini e vicini e di ridurne parti di essa a colture viticole e di altro genere, così come di costruirvi forni per la produzione della calce. La custodia di tutta la montagna era affidata al saltaro dei boschi, regolarmente stipendiato con un salario di 12 fiorini annuali, al quale spettava segnalare al sindico tutte le infrazioni ai dettami della carta di regola e tutti i danni apportati ai boschi.
Allo stesso modo dei boschi erano sottoposti a tutela e ricognizione i terreni di fondovalle, in particolare del “Palù”, affidati ai due saltari della campagna.
Anche gli uomini della comunità avevano compiti e obblighi specifici, tra i quali anche il rispetto di alcune norme ostative: esercitare la “carraria”, ovvero la prestazione di servizi di carriaggio per la stazione militare di Trento, servizi che erano assegnata in appalto ai migliori offerenti; tenere aperte bettole e osterie solo fino a una certa ora notturna e chiuderle durante le celebrazioni degli uffici divini, nel corso dei quali era pure vietato praticare giochi di sorta; giocare nei pressi della chiesa o disturbare con schiamazzi e suoni durante le ore notturne; allevare capre nel territorio comunitario e arrecare danni alle colture; rispettare tutte le norme relative ai tempi di coltura.

Complessi archivistici

Compilatori

  • Prima redazione: Franco Cagol - Data intervento: 21 settembre 2022